Primo movimento
È da poco passata la mezzanotte.
Due ragazzi sbucano dalle scale della metropolitana su piazza San Babila e svoltano verso corso Vittorio Emanuele.
“Ti è piaciuto?”
A chiederlo è stato il ragazzo più alto. I jeans sdruciti e la camicia di tela bianca cascante e spiegazzata lasciano comunque intravedere una fisico tonico e snello.
L’amico che gli cammina accanto sembra più giovane. Ha un fisico asciutto e due gambe lunghe esottili, e pare muoversi in punta di piedi per via di una eleganza innata. Senza motivo si guarda spesso intorno con circospezione. Del resto si sente sempre fuori posto, anche adesso in compagnia di quest’altro ragazzo conosciuto all’università un mese prima: una frequentazione maturata sull’istante e ch’egli considera una fortuna immeritata.
Non sanno ancora bene queste due giovani vite stropicciate nella loro bellezza che cosa li abbia attratti subito, né l’uno sa – con il cuore che batte all’impazzata – perché sta seguendo l’altro nel bel mezzo della notte. Comunque è più forte di loro: non riescono a non cacciarsi in situazioni simili.
Soltanto una settimana prima ognuno di loro aveva deciso di non caderci di nuovo. In realtà, questi due ragazzi non lo sanno ma questa volta è diverso; la loro infatuazione è nata dall’aspetto che li rende uguali, qualcosa che sorge spontaneo sul viso dell’uno e poi dell’altro, qualcosa che può dipendere dall’espressione o dalla situazione, oppure dal colpo di luce del momento.
“Matteo, ti ho chiesto se ti è piaciuto.”
“Cosa?”
“Come cosa? Il film!”
“Sì Tommaso, mi è piaciuto.”
Percorrendo passo svelto i portici di corso Vittorio Emanuele verso piazza del Duomo, i due sembrano spinti da un’ansia incredibile di arrivare. Ma arrivare dove? Si chiederà Matteo. Tommaso gli è sempre un passo avanti. Continua a parlare del film appena visto, dice che in fondo non è niente di speciale, ma che gli americani riescono a fare sembrare interessante anche una stronzata di storia come quella.
Intanto hanno appena iniziato a scendere le scale del sagrato di piazza del Duomo. Scendono gli scalini due alla volta e sbirciano attraverso la grata che fa intravedere lo slargo sotto di loro. Prendono a percorrere il corridoio di destra che, correndo parallelo all’altro che viene in senso contrario, li porterà verso la grande galleria che finisce in un’altra rampa di scale che conduce alla toilette pubblica.
“Ecco, ci siamo…” dice Tommaso, strizzando l’occhio all’amico.
“Ciao” si sente intorno.
Tommaso si volta di scatto. E’ Checco, uno dei ratt più incalliti. Ha il volto cadaverico, gli occhi cerchiati e i capelli arruffati. E’ sporco e puzza anche.
I ratt – in dialetto milanese topi – sono chiamati in gergo i frequentatori delle toilette della metropolitana. Una specie di cabala, di massoneria, una società segreta dei tempi moderni. Che cosa sono queste giovani creature della notte che si ammantano delle loro stesse ombre nel prostituirsi, se non rats d’egout affamati di sesso che si offrono in preda ad atroci dolori al miglior offerente – si fa per dire – per pochi schifosissimi denari?
“Ciao, Checco.”
“Dimmi, Tomma’, non è per caso…”
Tommaso, sapendo bene cosa Checco gli sta per chiedere, lo interrompe e con un gesto meccanico gli infila qualche euro nella tasca posteriore dei jeans.
“Ti trovo bene” gli dice alla fine. Ma nel dirlo, si ricorda di una battuta crudele del film che ha appena visto: ” Se la merda potesse cagare, puzzerebbe proprio come lui.”
Tommaso vede che nel frattempo Matteo è rimasto in disparte. Lo raggiunge.
“Cosa siamo venuti a fare in questo schifo di posto?” gli dice Matteo, posandogli la mano sulla curva del collo. E lancia un’altra occhiata attorno.
All’improvviso Tommaso lo vede rabbrividire. Allora si gira verso il punto sul quale Matteo ha fissato lo sguardo. Il ratt di prima è accovacciato a terra poco più in là, vicino a un altro tipo che gli sta allungando una siringa. Con movimenti lenti e collaudati si lega il laccio intorno al braccio. L’ago scivola dentro la carne facilmente e all’improvviso un rivoletto di sangue zampilla nel serbatoio della siringa, per un attimo nitido e solido come un cordoncino rosso; infine il ratt preme sullo stantuffo spingendo il liquido in vena.
Questo è quello che Matteo e Tommaso vedono là in diretta. E nell’attimo preciso in cui accade, Matteo impallidisce.
Quel posto non fa per lui, glielo aveva detto a Tommaso. Ma lui no! Lui ha voluto portarglielo a tutti i costi. E’ ridicolo, gli aveva risposto.
Matteo si rannicchia a terra, appoggiando la schiena contro il muro di cemento. Si preme il pugno sul petto e… Respira, pensa. Respira!
Poi chiude gli occhi e i rumori della notte sfumano nel silenzio.
Secondo movimento
Quando alle otto del mattino seguente, Matteo si sveglia con la luce che non gli lascia tenere gli occhi aperti, è distrutto.
Il risveglio in lui dipende anche dall’allestimento della scena: il sole che filtra, le tende tirate, la familiarità degli oggetti, il silenzio.
Dipende anche dalla persona che è lì con lui e dalla sua disponibilità, dal ricordo della notte appena trascorsa, da ciò che gli è rimasto sulla pelle.
Però quella notte Matteo sogna.
Non gli succede spesso e diffida di chi sogna spesso. Trova che il sogno si confonda troppo spesso in lui con il ricordo e questo non lo sopporta. Non lo sopporta perché vuole poter distinguere nettamente le due condizioni.
Però quella notte Matteo sogna, e anche allora il sogno si confonde con il ricordo, il ricordo di un giovane di una bellezza straordinaria sul marciapiede di fronte, davanti all’ingresso della toilette della metropolitana – crede per un attimo che guardi verso di lui. In fondo, al di là della galleria, mischiate al buio, una moltitudine di ombre invisibili o appena riconoscibili convogliano in movimenti fluttuanti e in rumori ovattati che sanno tanto di dolore. Qualcuno gli stringe la mano. Ma chi? Si domanderà per tutto il sogno.
I suoi occhi si riempiono improvvisamente di lacrime; ispirate soltanto da una manifestazione di bellezza tanto estrema quando onirica, come la bellezza di quel ragazzo distante almeno una ventina di metri, fermo controluce in piedi davanti all’ingresso della toilette della metropolitana. Matteo non sa perché è là, né ha il minimo sospetto di che cosa stia per accadergli, e se accadrà davvero.
Quando il ragazzo si muove per venire verso di lui, solo allora ha la percezione improvvisa di quanto la vita sia strana a volte, e quanto invece il sogno sia spesso simile alla realtà.
Quel ragazzo, che sembra devastato dentro dalla sua stessa bellezza, cammina verso di lui; ma più cammina verso di lui, più vede che si allontana. E più Matteo vede che si allontana, più gli sembra che gli occhi si fondano in quelli dell’altro, torturato dal desiderio di non riuscire ad afferrarlo, di non poterlo toccare, finché quel ragazzo si dilegua oltre la nebbia grigia e sfilacciata dei fumi della galleria.
Qui il sogno si fa improvvisamente ricordo. Allora Matteo si concentra sul corso degli eventi succedutigli al termine di quel film niente di speciale ma americano che aveva visto la sera prima. E nel farlo si accorge di aver registrato un forte segnale di angoscia. Un pugno allo stomaco.
All’improvviso vede che nel ricordo il ragazzo bello, forte e virile del sogno si è trasformato nell’esatto contrario; è diventato impacciato e dalla presenza fisica inesistente, sudicio e ripugnante, con i capelli lunghi e unti che gli sbattono sul giubbotto di pelle come la coda di un castoro.
Si ricorda della mano sinistra sozza di quel tipo protesa verso il laccio emostatico, e della destra che afferra spontaneamente la siringa che qualcuno gli sta allungando. Quindi si ricorda dell’ago che scivola dentro la carne, poi del tipo che esita un secondo. E infine, di come preme lo stantuffo e guarda il liquido defluire velocemente in vena, come risucchiato dalla sete silenziosa del suo stesso sangue.
Quando alle otto del mattino Matteo si sveglia, Tommaso è là nudo nel chiarore della stanza. Chino in avanti, che tenta di infilarsi gli slip.
“Buongiorno. Così stai meglio…” dice Tommaso accarezzandogli il dorso della mano.
Gli occhi di Matteo indugiano un attimo su quelli di Tommaso.
“Cosa è successo stanotte?” chiede Matteo.
“Dài vestiti, che facciamo tardi…” risponde Tommaso, risalendogli il braccio con un pigro movimento serpeggiante dell’indice sulla liscia pelle bianca.
“Tommaso, cosa è successo stanotte?” torna a ripetere Matteo. E lo dice con molta tranquillità. Addirittura con dolcezza.
Tommaso scuote la testa, e sorride. Di un sorriso largo, di quelli a cui è difficile sottrarsi.
“Niente Matteo. Stanotte non è successo niente…”
Un’ora più tardi i due ragazzi sono all’università, seduti uno vicino all’altro. E si tengono per mano ogni tanto, di nascosto, in attesa che arrivi il pomeriggio, e poi la notte, e quindi quella dopo ancora.