“Mi ci sono voluti molti mesi per accettare l’idea di essere stata lasciata. Ma nel caos di queste ultime settimane le cose sono cambiate. Mi sembra di ricavare da ciascun giorno più di quanto avessi fatto in precedenza, e in questo mio vivere alla giornata mi sento quasi più felice… Mi sembra di apprezzare tanto di più ogni momento che passa.”
Io la guardai mentre mi parlava dall’altra parte del tavolo, con una sorta di attrazione che mi sembrava nuova nei confronti di una donna.
“E’ chiaro che all’inizio è stato un colpo durissimo…” continua tranquillamente. “Mi ci sono volute settimane, mesi, solo per accettare l’idea. E anche se avessi preferito non essere stata lasciata, devo ammettere che questa condizione ha impresso in un certo senso alla mia vita delle svolte… positive.”
” Quali?” chiesi a bruciapelo.
“Be’, ad esempio, per la prima volta nella vita ho cominciato ad esplorare la spiritualità, e ho scoperto in questo modo tante cose su cui prima non avrei mai pensato di riflettere…”
Quasi nello stesso periodo in cui lei si era ritrovata abbandonata dall’unico uomo della sua vita che le importasse veramente, pensai in quel momento, il mio amico scopriva di avere la leucemia.
“…Ma in quest’ultimo periodo, il dover realizzare e accettare la mia natura mortale mi ha svelato un mondo nuovo.”
Io scossi il capo leggermente, ma mi resi subito conto che lo disse con molta tranquillità. Era sicura di sé. Non aveva dubbi. Sorrise. E lo fece con un gesto della mano tra i capelli da cui a un altro sarebbe stato impossibile difendersi.
Ogni tanto qualcuno sfiorava il tavolo gettandole uno sguardo. Non mi ero mai reso conto prima, di quanto fosse bella: i capelli, il volto, la pelle bianchissima, la forma degli occhi. Ma più di ogni altra cosa là, quella sera, era la sua bocca a muovere la mia fantasia; sia che ridesse o parlasse o tacesse.
Poi lei si voltò stranamente a guardare per un attimo oltre il bancone del bar, e continua.
“La felicità quotidiana… è in gran parte determinata dalla nostra visione delle cose. Anzi, spesso il sentirsi felici o infelici nei vari momenti della vita non dipende tanto dalle condizioni assolute dell’esistenza, quanto dal modo in cui si percepisce la situazione, da quanto si è soddisfatti di quel che si fa.”
Poteva essere una coincidenza, ma certo era strano. A poco a poco mi convinsi che quella ragazza riusciva a leggere in me molte più cose di quanto io potessi fare in lei. Naturalmente cominciai a chiedermi dove mai voleva arrivare: era anche difficile capire che stava passando nella sua testa là in quel bar, quella sera di un autunno fuori nebbioso e freddo.
Smettemmo per un attimo di parlare. Ci guardammo negli occhi, in un modo indagatore. Nello stesso istante mi sentii sopraffatto dall’emozione. Fu allora che lei, di punto in bianco, mi chiese se non avessi nulla da dire. Io mi sentii cogliere di nuovo da un senso di stupore, molto più violento di quello che avevo avvertito un attimo prima.
“Cosa vuoi sapere?” le dissi piano.
Allora si staccò dal tavolo; appoggiandosi allo schienale della sedia lanciò un'occhiata attorno. Quasi subito mi fissò di nuovo, sorrise.
“Di cosa hai paura?" disse. "Perché tu hai paura!”
In quel momento nel quale ogni cosa in quel bar sembrava non esistere più, perché stavo cercando di mettere insieme le parole per dire una cosa di me che mi sarebbe piaciuto farle sapere, in quel preciso istante capii che di lei mi potevo fidare. Completamente. Allora là, al tavolo, mi sporsi un po’ in avanti e dissi quella cosa che avevo pensato qualche minuto prima.
“Quasi nello stesso periodo in cui tu ti sei ritrovata abbandonata dall’unico uomo ti importasse veramente, il mio amico ha scoperto di avere la leucemia…”
Riprese a guardarmi, immobile e in silenzio. Mi interruppi per un attimo. Poi continuai.
“Milano, quel giorno, era bellissima nonostante la foschia che perennemente l’avvolge; a dispetto della solita sofferenza metropolitana di una città abitata da persone trivellate di buchi, di cavità, di pertugi doloranti come se tutti fuggissimo da una battuta di caccia il cui unico fine non è tanto quello di venire catturati, ma di arrivare ad essere stanati cambiandoci l’ordine del nostro habitat. Quasi improvvisamente, a poco più di vent’anni, quella mattina mi resi conto di essere diventato un uomo. Non ero più il ragazzo e non ero più l’immortale. Lui, il mio migliore amico, mio amante, stava morendo in quel letto infame d’ospedale…”
Si tirò indietro una ciocca di capelli che le era scesa sugli occhi. Per un attimo rimasi in silenzio ad osservarla.
“…Quando varcai la porta di quella stanza, la luce del primo mattino entrava dalla finestra quasi a volerla riscaldare. C’era un odore acre di ospedale. Era tutto così compiuto. Lui stava dormendo, o sembrava dormisse un sonno leggero fatto di piccoli e impercettibili movimenti. Quando mi vide in piedi accanto al letto, girò la testa lentamente, verso il braccio in cui aveva infilato l’ago della flebo. L’ago che lo stava nutrendo con una fatica estrema, e per l’ultima volta. Mi accostai piano e gli toccai appena la mano. Mi guardò dai suoi occhi neri, profondi, in un volto scavato, e fece a fatica un cenno con la testa. Dal fianco del letto, da sotto le lenzuola candide scendevano alcuni tubicini scuri; uno di questi terminava in un sacchetto di plastica trasparente pieno di un liquido giallastro, orina ho pensato.”
Lei disse qualcosa che non capii, là al tavolo. Probabilmente mi chiese se ne volessi una, perché si accese una sigaretta e si mise a fumare. Avrei voluto che dicesse qualcosa, ma lei non disse nulla. Allora andai avanti, fissandola nei suoi occhi grigi.
“Stringimi la mano, mormorò lui nel vuoto di quella stanza d’ospedale, ho tanta paura. Io deglutii mentre gliela prendevo, quella mano ancora più lunga e sottile, portandomela alla bocca. E sentendo il calore della sua pelle squarciata sulle mie labbra, avvertii all’improvviso che le atrocità che aveva dovuto sopportare lo avevano già ucciso. Inesorabilmente. E per la prima volta nella vita, vidi quello sguardo: lo sguardo di chi sta per morire. Lo vidi nei suoi occhi, negli occhi di un amico che mi era stato amante, che implorava senza fiducia una certezza che non gli potevo dare. E non gli avrei mai potuto dare. Quella di guarire.”
Si sporse in avanti, sul tavolo. Sentivo il suo sguardo su di me, e non riuscivo a proseguire. Disse anche qualcosa sottovoce, ma non ricordo cosa. Allora mi guardai intorno, come a cercare la via più breve per finire. Poi ripresi a raccontare.
“Vedrai che ne uscirai presto, fu l’unica cosa che riuscii invece a dirgli là in quel momento. Lui girò la testa dall'altra parte, e chiuse lentamente le palpebre. In quel preciso istante mi resi conto che qualcosa in noi si era definitivamente spezzato. Con il cuore devastato dalla sofferenza, che mi urlava dentro, capii che era ora di andarmene, da là. Compresi che non potevo rimanere un secondo di più, a cercare di aiutarlo a morire. Non lo avremmo sopportato. Per oltre un anno abbiamo vissuto insieme, studiato insieme; ci siamo strapazzati, anche odiati, ma soprattutto ci siamo amati con passione. E adesso lui stava morendo. Il ragazzo con cui avevo vissuto la mia prima grande esperienza d’amore. Allora lo guardai per l’ultima volta in fondo alla stanza, e pensai che quando sarei uscito, da là, sarei andato dalla madre, a dirle quanto le volessi bene e quanto avessi amato suo figlio. Lo salutai così, prima di vederlo uscire dalla mia vita per sempre: a presto, dissi, cerca di guarire. Ma mi porterò dentro per sempre quegli occhi spalancati, sul letto bianco di quella stanza d’ospedale.”
Emisi un sospiro profondo, e mi voltai verso di lei. Mi stava di nuovo fissando. Però in un modo diverso.
Solo in quell’istante vidi, nel suo volto, il volto di lui com’era, fresco e delicato, pulito. Vidi quelle labbra sottili e quegli occhi in questi, e tutta la bellezza di lui manifestata in quella di lei.