Quando decido di andare in Rue de la Ferronnerie, venerdì sera, non è una scelta facile. Sono senza soldi per stare altri giorni all’ostello, e sono lontano mille chilometri da casa. E ora sono zuppo di pioggia, che peggio di così... Anche se ho paura di questo incontro, alla fine mi decido: suono il campanello del citofono. Rimango ad aspettare, nervoso e inquieto, e intanto guardo la mia immagine distorta, riflessa nella vetrina lì di fianco.

Il rumore dello scatto automatico del portone che si apre all’improvviso mi fa sobbalzare, mentre in italiano la voce di un uomo al citofono mi dice di salire al terzo piano, che monsieur mi sta aspettando, di non prendere però l’ascensore perché il est en panne.

Così faccio, un po’ impaurito. Intanto penso a monsieur. Dopo aver salito una larga scala elicoidale che si allunga maestosa dall’androne dell’ingresso fino al terzo piano, su ci arrivo con il fiatone; più per la paura che per la fretta di esserci.

Ora sono fermo davanti a quella cazzo di porta in legno di noce scuro intarsiata, senza azzardarmi a fare alcunché. Fingo anche di smettere di pensare. Guardo lo swatch: un quarto dopo mezzanotte. Nel farlo mi osservo i polsi esili, fragili e ossuti, e il cinturino in plastica viola trasparente che mi preme contro le vene ed ho un senso di fastidio, di pressione come quando mi misurano le pulsazioni. Intanto penso alla metropolitana che è chiusa dall’una alle cinque e trenta del mattino, e mi domando come cazzo faccio a tornare all’ostello? Ma poi mi dico tornare dove? Non so esattamente dove andare una volta fuori di lì, né che cosa sto aspettando che mi succeda ancora in questa città che fu di Robespierre e della ghigliottina. Mangio baguette et lait écrémé à longue conservation da quando sono arrivato… Sono stanco, terribilmente stanco di inventarmi storie assurde.

Non so perché lascio sempre che mi concino in questo modo. Mi dico che voglio solo chiudere gli occhi e non riaprirli per almeno una settimana, un mese, un anno. Voglio solo dimenticare chi sono e perché sono qui appoggiato a questa porta di un appartamento di un monsieur che non so bene chi cazzo sia, in una città che non è la mia, una città allagata dalla pioggia durante un diluvio estivo, in cerca di…

E di colpo mi torna stranamente in mente un passo di Seminario sulla gioventù; tiro fuori il libro dallo zaino e lo sfoglio lì per cercare la pagina, la trovo e la leggo.

Mi piace il rito dell’adescamento sentimentale, dire certe parole, assumere certi atteggiamenti, plasmarli a immagine di quelli dell’altro sin a farli diventare una proiezione illusoriamente esatta dei suoi desideri più inconfessabili, perché infine mi affidi la sua anima, me la getti in pasto. E subito dopo mi piace scomparire come un miraggio e lasciare il deserto quando vengo a mancare io. […] Come fare un pane a briciole e lasciarlo lì, a decomporsi sino a che il tempo non costringa le briciole a tendere l’una all’altra, a reimpastarsi, a ritrovare una qualsiasi unità. In qualche modo, perché si deve pur vivere con un “sé”, con un “sé” a pezzi non si può .

 

À quoi penses-tu, petit ami?” dice quello di prima al citofono, facendomi sobbalzare.

Davanti a me c’è adessoun uomo sui trenta, alto e piazzato - potrebbe essere benissimo un buttafuori, che come lui ne ho visti tanti dalle mie parti - con i capelli neri, lunghi e raccolti a coda di cavallo, lisciati e lucidi come una carpa appena presa. Ha le basette lunghe e scolpite, il tipo della notte, e la mosca sotto il labbro. Indossa un paio di pantaloni neri di gabardine e una camicia bianca plissé. Dal colletto slacciato esce un ciuffo di peli neri che va a sfumare nell’attaccatura della gola, là dove invece la pelle è liscia per la rasatura fresca che sa ancora di Comme des garçons.

“Dài entra!” e mi trascina all’interno afferrandomi per un braccio. “A monsieur non piace aspettare…”

Dentro è tutto diverso da come me lo sono immaginato, percorrendo nel diluvio estivo parigino la Rue des Archives e la Rue Saint-Craix-de-la-Bretonnerie. L’aria è irrespirabile. Voglio andarmene via da qui, mi dico. Subito. Non mi sento al sicuro. Non mi piace le gorille parfumé di legno e muschio di salice a ottanta euro la boccetta, che intanto mi fa cenno col capo di fermarmi sull’ingresso, mentre sparisce quasi subito attraverso la porta lì di fianco. Intanto penso a quanto potrò ricavarci da questo monsieur, e capisco che non ho tempo per riflettere. Allora con il pensiero svincolo alla prima uscita, e faccio per afferrare la maniglia della porta…

“Monsieur ti aspetta…” dice il tipo alla Stallone, sbucando dalla porta di prima.

Il fatto è che io, monsieur non l’ho mai visto, mi sono fidato di Jean Antoine.

 

Ce n’est pas grave, è cotto fatto di te, è una marchetta facile facile… Trecento euro per lasciarti fare una pompa? Buttali via, mortadella!”

Mi dà fastidio che mi chiami così, e poi sentirmelo dire con quella erre moscia del cazzo è ancora più irritante. Ma Jean Antoine è proprio un grazioso figlio di puttana, di quelli che non si incontrano facilmente; quel tipo di figlio di puttana però che, se ti capita per caso di incontrare, fai di tutto per non perderlo di vista e lasci che prima o poi ti porti a letto… E così ho lasciato che succeda! Tre giorni dopo averlo conosciuto sotto la Tour Eifel.

Il ne se dresser pas…” gli dico alla bene e meglio, con rabbia più per il mortadella che per la marchetta. “Non mi tira e mi ripugna, cazzo!, farmelo succhiare da un vecchio bavoso… Non sono mica un tossico!” specifico in italiano per convincerlo a lasciarmi perdere.

Ma ecco che Jean Antoine, invece, dopo qualche birra di troppo e aver fumato insieme un po’ più del dovuto, tenendomi rannicchiato accanto a lui, una ciocca di capelli che gli ricade sugli occhi, dopo un po’ di moine mi induce ad accettare. E in questo casino ci finisco per davvero.

 

Mi faccio forza, provo a bloccare il braccio a quella specie di Rocky travestito da dandy e, mentre cerca di trascinarmi dentro, lo sfido con lo sguardo.

“Di’ un po’, petit ami…” fa lui, facendomeli girare. “E’ tardi per cambiare idea… Il est tard!” E mi spinge dentro, afferrandomi per il culo.

Oltre quella porta specchiata a vetro decorato nei toni tra l’azzurro e il verde, l’appartamento è ampio. Mi ricorda l’appartamento di The dreamers - quel vecchio film di Bertolucci che ho visto qualche mese prima dalle mie parti, in una rassegna estiva al Cineforum - e per un istante mi vedo davanti Matthew quando varca l’ingresso della casa sulla Rive Gauche ed ha la sensazione che quell’appartamento da qualsiasi altro punto di vista lo si guardi non sembra affatto ampio, perché tutti i locali hanno il soffitto basso e sono piccoli, resi ancora più piccoli dalle librerie, dai quadri e dai mille oggetti d’arte raccolti nel tempo e sparsi ovunque. Tutto sembra immobile, silenzioso, sigillato come una bara.

Monsieur – adesso non ho dubbi che non sia lui - mi viene incontro muovendosi dal fondo del corridoio congiungendosi le due metà del kimono di seta rosso sul corpo nudo, e mi scruta attentamente. Ha fascino monsieur, vaffanculo! E non avrà più di quarant’anni. Jean Antoine non m’ha raccontato cazzate.

All’improvviso lì, un po’ incredulo e un po’ confuso tra un miscuglio di profumi inebrianti di incenso, tabacco e baobab, avverto il tremito al labbro inferiore di quando ho un cattivo presentimento. Mi guardo alle spalle per un attimo. Se un angelo custode mi concedesse sull’istante di esprimere un desiderio, gli chiederei di farmi sparire, così per incanto, e impedire che nel giro di uno o due minuti questa mia sensazione si tramuti in qualcosa di prestabilito.

Dunque fa' qualcosa, inventati qualcosa, cazzo! Ma cosa? Cosa diavolo posso fare? Alla fine, mi dico, sono fuggito dal mio villaggio per cercare disperatamente la libertà da amori che mi spingono all’estremo, per ritrovarmi di nuovo verso la trasgressione e degenerazione di un odio che è tutto dentro di me e che, come in una strada in salita, cerco l’inizio e non ne vedo la fine.

Ma è come se inconsapevolmente non riuscissi più a trattenermi ora che ho cominciato ad attraversare un Lete inquinato come qualsiasi altro fiume. Semplicemente non ci posso far niente; come in un sogno, come in un cumulo di neve, in una valanga di cocaina, il tedio dell’eternità ha già iniziato ad ammantarmi anche lì, in questo appartamento al terzo piano, alla fine di Rue de la Ferronnerie.

Per un attimo non so come reagire, ed è proprio l’esitazione a farmi perdere l’opportunità di dissimulare. Poi mi vedo riflesso in un grande specchio nella luce rossastra della stanza e osservando i lineamenti del mio corpo mi riscopro il Narciso di sempre, in flagrante delicto, la posizione e le smorfie simili a quelle di un samurai al culmine dell’harakiri.

Tutt’a un tratto, di nuovo come in The dreamers, con la medesima intensità con cui la stessa voce mi ha emozionato in quel film, si innalzano nella stanza le dolci e malinconiche note di Rien de rien cantata da Edith Piaf.

Alla fine mi convinco che il rimpianto non è possibile, come mormoro a monsieur nel momento in cui raggiungendomi credo abbia capito e allunga una mano per accarezzarmi i capelli:

“Je ne regrette rien.” E lui mi sorride.